The 8th W.B. Convention a Saitama
The 8th World Bonsai Convention a Saitama
Riceviamo e molto volentieri pubblichiamo un articolo di Giulio Veronese, un affermato giardiniere Italiano che lavora in Giappone.
La prima parte dell'articolo riguarda la 8th World Bonsai Convention tenutasi quest'anno a Saitama, la seconda è un viaggio nel villaggio di Omiya, considerato uno dei luoghi più espressivi del bonsai giapponese.
Saitama
Anche il mondo dei bonsaismo ha le sue olimpiadi. Queste sono note come “The World Bonsai Convention” e si svolgono con cadenza quadriennale. Nell’ultimo fine settimana di aprile di quest’anno, la manifestazione è tornata per la prima volta in Giappone, e io ho avuto la fortuna di potermi recare ed assistere all’evento.
Sede designata dei giochi è stata Saitama, città a nord di Tokyo considerata in Giappone vera e propria mecca del bonsai. Qui nel 1989 si sviluppò l’idea delle Convention, per iniziativa di alcuni fra i più grandi maestri giapponesi di quella generazione (primo fra tutti Saburo Kato). Lo scopo dichiarato era diffondere il bonsaismo internazionalmente, contribuendo ad elevarne lo status da fatto meramente hobbistico a forma artistica autonoma e importante, in grado di parlare al mondo. Da allora la manifestazione ha fatto il giro del globo, passando per Sud Corea, Germania, Porto Rico, Cina e Stati Uniti (due volte). Oggi finalmente si ritorna dove tutto ebbe inizio.
Ho iniziato la mia visita dalla sede principale dell’evento, la Saitama Super Arena. Questa è un’immensa struttura polivalente indoor (seconda al mondo per capacità), una specie di astronave di vetro e acciaio parcheggiata nel tetris alabastrino di torri e grattacieli della metropoli di Tokyo. Camminando verso la lucida mole dell’Arena mi interrogo sulla pertinenza di questa quale contenitore per l’esposizione dei bonsai, rappresentanti di un’arte naturale e tradizionalissima. Tuttavia, giunto finalmente agli ingressi e constatato della lunghezza delle code di attesa, capisco che - probabilmente - altra soluzione non era possibile. Il numero di visitatori è impressionante, la loro provenienza spiccatamente internazionale.
Dopo una mezz’oretta di coda (durante la quale mi imbatto in un gruppo di simpatici italiani, entusiasti bonsaisti dal nord Italia), finalmente varco i cancelli dell’Arena. Il primo bonsai che mi è offerto è il campione e simbolo della manifestazione, lo straordinario shimpaku “Hiryu” (in giapponese, drago in volo). I bonsai shimpaku (una varietà nana di Juniper chinensis) sono tra i tipi tradizionali del bonsaismo giapponese, apprezzati per il fogliame sempreverde e l’attraente corteccia e legna, mantenuta secca per mezzo di solfato di calcio che dona il tipico effetto-gesso. Tuttavia, il valore specifico dell’esemplare “Hiryu” è da ricercare nella sua naturalezza drammatica e quasi totalmente congenita, dal momento che fino la pianta è cresciuta selvatica su un pendio di un monte e portata in coltivazione solo nel 1983.
Quindi il percorso espositivo si apre formalmente con i bonsai e le vaserie in concessione dal Palazzo Imperiale di Tokyo. Alcuni di questi centenari esemplari sono stati testimoni di accadimenti cruciali della storia dell’Impero del Sol Levante. La nobile e canonica estrazione di questi capolavori traspare da ogni angolatura. Il pino nero – vero aristocratico fra i bonsai – è la specie più esposta. Fa la sua entrée anche il bonsai più vetusto della collezione imperiale, un shimpaku datato 600 anni.
Il percorso continua con la rassegna di bonsai appartenenti a famose collezioni private. Ai miei occhi, questi sembrano muoversi verso canoni estetici più arditi, e virtuosissimi. Vi è un fantastico pino bianco (Pinus parviflora) appartenuto a Yasunari Kawabata, primo giapponese a ricevere il premio Nobel per la letteratura; un elegante acero tridente (Acer buergerianum) lavorato dal famoso bonsaista Naemi Iwasaki; un pino nero (Pinus thunbergii) miracolosamente sopravvissuto al bombardamento atomico (si trovava appena 3 chilometri da ground zero: oggi il suo valore - economico quanto simbolico - è inestimabile).
La mia attenzione si sofferma su un gruppo di yezo-matsu (Picea yedoensis) piantati in gruppo, in modo da richiamare nell’osservatore il senso di un bosco (stile yoseue). Leggo che fu lavorato da Saburo Kato, influente bonsaista di Omiya famoso per le composizioni “ambientali”, dove l’effetto di un paesaggio è suggerito grazie all’impiego combinato di rocce o piante. Sempre sullo stesso tono è una composizione shimpaku creata da Masahiko Kimura appositamente per la manifestazione: una serie di ginepri nani sono incastonati su di una roccia verticale, così evocando i famosi pilastri naturali a Wulingyuan in Cina. Mi lascio andare alla contemplazione di questi microcosmi per qualche minuto, di volta in volta rimpicciolendo e allargando il mio percepire come un allievo zen.
Ben presto tuttavia le sgomitate della folla mi richiamano all’ordine sospingendomi verso il nucleo principale dell’esposizione, una serie di oltre trecento bonsai da tutto l’arcipelago, allineati in corsie lunghe e trafficatissime. Visto il periodo dell’anno, sono soprattutto le qualità del fogliame a farsi apprezzare. Le poche specie in fiore sono qualche sporadico esemplare di Wisteria floribunda, Magnolia liliflora e Aesculus pavia ‘Rosea Nana’. Peccato che siamo appena in anticipo per i colori scintillanti delle azalee satsuki (Rhododendron indicum cvv.), vere regine dei bonsai da fiore giapponesi.
Ad ogni pianta è riservata una piccola alcova tokonoma in stile vernacolare, forse nel tentativo di ricreare una placida armonia nel muto e distaccato riverbero dell’Arena. Attorno al bonsai principale, collocato su un tavolino shoku o un asse piatto ji-ita, vi è un accompaniamento di oggetti tematizzanti, come un rotolo calligrafico kakejiku o un bonsai erbaceo minore kusamono, spesso non privo di una certa curiosità botanica. In alcuni casi sono usate le pietre suiseki, il soggetto protagonista della sezione che segue.
Suiseki è una delle arti naturali giapponesi, strettamente connessa alle discipline del bonsaismo e della cerimonia del tè, cha-no-yu. Sebbene – al contrario dei bonsai – le pietre suiseki non siano modellate da mano umana, esiste un legame profondo fra le due arti. Entrambe aspirano a plasmare un paesaggio miniaturizzato e immaginifico, capace di toccare in modo diverso la sensibilità di individui diversi. Al pari dei bonsai quindi, le pietre suiseki possono essere viste come dei microcosmi verso i quali è possibile smarrirsi all’infinito. Mi accorgo altresì che molte delle pietre sono designate con un nome proprio, primo (ma non unico) indizio per l’invenzione della sua forma interiore.
Un’altra sezione interessante è offerta dalle dimostrazioni pratiche di bonsaismo. Su un largo palco si esibiscono pubblicamente nell’arco dei due giorni importanti artisti da tutto il mondo. Dal Giappone partecipano i maestri Masahiko Kimura, Hiroshi Takeyama, Kunio Kobayashi e Shinji Suzuki; dall’estero, campioni internazionali del calibro di Werner M. Busch (Germania), Bjorn Bjorholm (USA), Zhao Qingquan (Cina) e Jyoti e Nikunj Parekh (India). Nel momento in cui mi capita di passare, vedo due bonsaisti lavorare in simulanea un pino nero con rapidità e confidenza impressionanti. Soprattutto considerando che mentre uno opera a mani nude, l’altro – pochi centimetri appresso – sta usando una motosega da arboricoltura. Allontanandomi ragiono senza troppa invidia al presente stato d’animo dell’addetto ai controlli sull’antinfortunistica per la manifestazione.
Con tali pensieri arrivo presso le bancarelle promozionali e commerciali, che occupano un vasto spazio centrale. La prima bancarella a catturare la mia attenzione è quella dell’Ufficio Turistico di Saitama, dove sono offerti prodotti locali, come gelatine saika-no-huiseki, sakè frizzante e misteriosissimi crackers al bonsai. Forse più interessanti sono le bancarelle degli addetti al settore, con un ampia offerta di piccoli bonsai, attrezzi, libri e tessuti di indigo aizome. Peccato che per le politiche sul biocontrol sia davvero problematico esportare piante fuori dal Giappone (ma nell’Arena non manca uno spazio per autorizzazioni e quarantena; basta attendere tre mesi per l’autorizzazione). Verso la fine della gionata saranno annunciate alcune delle vendite più clamorose. Un pino nero appartenuto ad una celebrità giapponese è stato battuto a dieci milioni di yen. Faccio un conto del corrispettivo in euro. Lo faccio di nuovo, incredulo. Del resto, anche questo è il Giappone, terra di paradossi folli e iperbolici.
Con tali pensieri arrivo presso le bancarelle promozionali e commerciali, che occupano un vasto spazio centrale. La prima bancarella a catturare la mia attenzione è quella dell’Ufficio Turistico di Saitama, dove sono offerti prodotti locali, come gelatine saika-no-huiseki, sakè frizzante e misteriosissimi crackers al bonsai. Forse più interessanti sono le bancarelle degli addetti al settore, con un ampia offerta di piccoli bonsai, attrezzi, libri e tessuti di indigo aizome. Peccato che per le politiche sul biocontrol sia davvero problematico esportare piante fuori dal Giappone (ma nell’Arena non manca uno spazio per autorizzazioni e quarantena; basta attendere tre mesi per l’autorizzazione). Verso la fine della gionata saranno annunciate alcune delle vendite più clamorose. Un pino nero appartenuto ad una celebrità giapponese è stato battuto a dieci milioni di yen. Faccio un conto del corrispettivo in euro. Lo faccio di nuovo, incredulo. Del resto, anche questo è il Giappone, terra di paradossi folli e iperbolici.
Omiya
Il giorno seguente mi reco ad Omiya, il villaggio vicino a Saitama seconda sede della manifestazione. Omiya è riconosciuta in Giappone come patria dei bonsai. Le cose qui presero le mosse in seguito al tragico terremoto del Kanto del 1920; fu quella catastrofe a costringere un gruppo di bonsaisti della regione a spostarsi, in ricerca di una zona inurbanizzata dotata di acqua e aria di qualità per crescere le piante. Nel 1925 questi si stabilirono ad Omiya, la quale divenne ben presto un centro riconosciuto. Già nel 1936 si contavano ben 35 vivai specializzati.
In quegli anni, per risiedere a Omiya era necessario soddisfare quattro requisiti: possedere almeno dieci bonsai, aprire il proprio giardino alla comunità, abitare in case ad un unico piano abitativo e usare siepature per delimitare i confini delle proprietà. Si trattava a tutti gli effetti del primo piano urbanistico incentrato sulla coltivazione dei bonsai. Dal boom economico del dopoguerra molte cose sono cambiate ad Omiya (i vivai sono oggi solo sei), ma il livello professionale rimane comunque altissimo. Il villaggio ospita da tempo un festival annuale che richiama entusiasti da tutto il Giappone. La mascotte locale (in Giappone c’è sempre una mascotte locale) è “bonsaikun”, un affabile rinoceronte con un bonsai al posto del corno e un vaso blu invece delle mutande.
In quegli anni, per risiedere a Omiya era necessario soddisfare quattro requisiti: possedere almeno dieci bonsai, aprire il proprio giardino alla comunità, abitare in case ad un unico piano abitativo e usare siepature per delimitare i confini delle proprietà. Si trattava a tutti gli effetti del primo piano urbanistico incentrato sulla coltivazione dei bonsai. Dal boom economico del dopoguerra molte cose sono cambiate ad Omiya (i vivai sono oggi solo sei), ma il livello professionale rimane comunque altissimo. Il villaggio ospita da tempo un festival annuale che richiama entusiasti da tutto il Giappone. La mascotte locale (in Giappone c’è sempre una mascotte locale) è “bonsaikun”, un affabile rinoceronte con un bonsai al posto del corno e un vaso blu invece delle mutande.
Girovagando per le stradine del paese mi immergo nella sua atmosfera esotica ed idillica. Sembra impossibile trovarsi ad appena due chilometri dalla Sonic City di Saitama, quel rovente trambusto e l’algida edilizia. Ad Omiya i passi sembrano ricongiungersi con quel Giappone oggi quasi dimenticato, ancora a volte dipinto nelle pellicole di Kurosawa o Miyazaki. Penso fiducioso che qui è ancora aperto un dialogo fra natura e umanità, che solo permette al bonsai di elevarsi come forma artistica, permettendone la comprensione del senso.
Il primo sito che visito è Fuyo-en, un giardino-vivaio non lontano dalla stazione dei treni. Fuyo-en è rinomato per i bonsai decidui e per questo l’inizio della primavera e l’autunno sono i periodi migliori per una visita. Tuttavia anche a fine aprile non manca l’interesse. Molte varietà di aceri palmati hanno già iniziato il viraggio del loro fogliame (specificatamente Acer palmatum var. amoenum) e i sempreverdi hanno la brillantezza dello smeraldo. Camminando fra le corsie dei bonsai, incontro un giardiniere della ditta, impegnato a spostare certe vaserie. Gli chiedo di mostrarmi qualcosa di speciale e lui mi porta al cospetto di uno stupendo shimpaku, potato in modo drammatico e magnificamente alloggiato sopra uno specchio d’acqua, come un sogno navigando nell’aria.
Successivamente visito altri due vivai, Toju-en e Mansei-en. Il primo è popolare ad Omiya per i corsi di bonsaismo. Per questo si possono osservare un numero di bonsai ancora giovani, soprattutto pini bianchi giapponesi (Pinus parviflora). Notevole anche il display di due glicini, uno blu e uno bianco, cresciuti in stile kengai (a cascata). Mansei-en è invece il più antico dei giardini bonsai di Omiya, forse il più illustre. Negli anni la ditta si è orientata verso uno stile creativo (noto come sosaku), dove le piante sono – ad esempio – allevate in gruppi o abbarbicate a rocce, così stimolando l’immaginazione dell’osservatore. Varcando la soglia dell’edificio principale sono avvicinato dal proprietario dell’azienda, un insolitamente estroverso giapponese che mi domanda dell’Italia e della cucina. Inoltre incontro due giovani tirocinanti stranieri (un tedesco e un americano), coi quali scambio le rispettive opinioni sulle nostre esperienze lavorative in Giappone.
Profilo di Giulio Veronese
Giulio Veronese fa un po’ di tutto, a volte con successo. Da un punto di vista lavorativo, Giulio è il giardiniere capo italiano di un giardino inglese nel sud del Giappone.
Giulio è cresciuto nei viottoli ciottolati di Ferrara, nel nord est d’Italia. Qui sviuluppò i primi interessi, come guardar le nuvole, leggere i libri del nonno e sbucciarsi le ginocchia. Avendone abbastanza del ciottolame natio, un giorno decise di dare un giro al mappamondo: il dito cadde sul Regno Unito. Qui Giulio trascorse felicemente quattro anni a far giardinaggio e lamentarsi del tempo e vino locali; si impegnò e fu equanimamente appagato dall’orticultura ornamentale e botanica, guadagnandosi anche una serie di qualificazioni pratiche e teoriche (la maggior parte delle quali col suo nome scritto incorretto.....