Mishima, o la visione del vuoto

Gli scrittori ― quelli veri, quelli grandi ― hanno la capacità di ricreare continuamente la letteratura:

plasmano generi impercettibilmente nuovi, seminano dubbi, piegano il significato delle parole sino a farlo coincidere con l'ombra di ciò che intendono narrare

Nel quadro appena descritto, credo che meriti una citazione Mishima o La visione del vuoto (Bompiani, pp. 111, € 6,20), breve ma denso saggio di Marguerite Yourcenar, nota al pubblico soprattutto per Le memorie di Adriano. Il sottotitolo potrebbe indurre a pensare che si tratti di un'elegia funebre o dell'ennesimo lavoro costruito attorno al perfetto centro vuoto dell'esistenza di Mishima, vale a dire il suicidio progettato tanto meticolosamente quanto mal riuscito. L'autrice riserva sì ampio spazio al tema, ma preferisce dare in particolar modo rilievo alla filosofia e alle opere dello scrittore, che non costituiscono semplici proiezioni biografiche o caratteriali su carta, quanto piuttosto (in molti casi) importanti tasselli della letteratura giapponese del secondo dopoguerra. Quel che scaturisce dal racconto-essai è dunque un rapido ritratto a tutto tondo in cui Marguerite Yourcenar, sapientemente, non dimentica mai che Mishima ― prima ancora di essere un romanziere, un drammaturgo, un intellettuale ― è stato un uomo. Pensieroso, riservato, talvolta eccessivo persino nei gesti più quotidiani; un uomo che, nel suo biglietto d'addio, con una coerenza e una sincerità spesso incomprese, ebbe il coraggio di rivelare una delle più grandi e amari verità: «La vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre».
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