Capolavori della scultura buddhista giapponese

E' da poco terminata la mostra organizzata con la collaborazione del Bunkachō (l’Agenzia per gli Affari Culturali del Giappone), presso le Scuderie del Quirinale a Roma,

intitolata: Capolavori della scultura buddhista giapponese. 21 opere (per un totale di 35 pezzi) che, spaziando dal Periodo Asuka (538 – 710) a quello Kamakura (1185 – 1333), permettono di seguire con chiarezza l’evoluzione della scultura buddhista nella terra del Sol Levante.

Alcune di queste statue sono di grandi dimensioni, talvolta quasi imponenti; un tesoro che assai di rado i nipponici permettono che lasci il suolo patrio, e questo potrebbe allora spiegare il perché della, purtroppo, breve durata della esposizione, inaugurata il 29 luglio 2016. 

Introdotta dalla Cina attraverso la Corea, la scultura buddhista si sviluppò in Giappone con sempre crescente autonomia espressiva rispetto a quella del resto dell'Asia. Tra quegli orientalisti in possesso di una sana visione critica e non fanatica del Giappone, gira il seguente detto: l'unico elemento classico autenticamente nipponico si trova nella tradizione delle terme (温泉, onsen). Tuttavia, nulla rimane uguale quando entra in contatto con la cultura di questo Paese, qualsiasi cosa non viene banalmente copiata, bensì “giapponesizzata”; non per niente alcuni studiosi definiscono quella dell'Arcipelago una “cultura mista” (混成文化, konsei bunka), cioè non passiva ricettrice delle mode e dei costumi stranieri, ma capace, per converso, di rielaborare qualsiasi elemento allogeno, adattandolo alle proprie esigenze.

La Penisola Coreana ha sempre rappresentato una “testa di ponte” per la permeazione della cultura della “Terra di Mezzo” (“Zhōngguó”: 中國, semplificato dopo l'avvento di Mao in中国) in Giappone. Proprio dalla Cina, tra il VI e il VII secolo, venne introdotto il Buddhismo, e da quel momento in poi nulla è stato più lo stesso nella società nipponica. Forse, soltanto con la celeberrima Restaurazione Meiji (1868) si è posta in essere una rivoluzione sociale tanto profonda nella vita dei giapponesi.

A partire dal X secolo, con la “splendente” corte Heian (794 – 1185), la scultura buddhista conobbe uno sviluppo sempre più originale rispetto ai modelli continentali, sia nei temi che nelle forme, trovando il suo culmine con l'avvento del potere militare – quello degli Shōgun per intenderci – ai danni di quello imperiale a partire dall’Epoca Kamakura. La nuova dottrina samuraica influenzò anche l'arte religiosa, facendo nascere una scultura realistica e vigorosa, essenziale nelle forme, che ben rispondeva agli ideali dei signori feudali che governavano il Paese. Le varie “sette” buddhiste, che sino a quel momento gestivano la spiritualità della Nazione, vennero gradualmente messe in ombra dalla imponente diffusione dello Zen: una interpretazione del Buddhismo che diventerà un tutt'uno col mondo dei samurai.

Facciamo un passo indietro. Lo Shintō (神道) è la religione autoctona del Giappone e per secoli patì non poco lo strapotere di questa nuova e articolata religione “straniera”. Invero, il Buddhismo è talmente complesso, quanto lo Shintoismo, nella sua essenza animista, è basilare, legato in modo indissolubile alla Natura, dove, al posto di riti veri e propri, troviamo una serie infinita di feste tradizionali, i cosiddetti matsuri (祭), così da onorare i kami: divinità talvolta persino presenti in oggetti inanimati come le pietre.

Con l'ascesa del Buddhismo vi fu altresì una vera palingenesi nell'arte giapponese, visto che la “Via dei Kami” non necessitava di essere rappresentata visivamente. Dunque, seguendo una lettura di stampo occidentale, si potrebbe definire lo Shintoismo una religione iconoclasta.   
Come spiega il curatore della mostra Takeo Oku: “Il Buddhismo portò con sé caratteri ed elementi indiani, cinesi, coreani che poco alla volta col supporto politico di grandi statisti e uomini di potere si affermarono nell’Arcipelago fino a unirsi in forme sincretistiche con lo Shintoismo primigenio”. Oltre che in Letteratura, è nell'Architettura e nella statuaria che questa religione raggiunse l'apice della sua grandezza espressiva; malgrado non vi sia aspetto della vita tradizionale giapponese che non ne sia stato influenzato. 

Per quanto concerne le statue, il Governo Nipponico ne ha classificate 2626 come “Tesoro Nazionale” o “Importante Proprietà Culturale”. Una stringatissima riflessione su questo punto. Talvolta, essere orientalisti e, nel contempo, museologi può essere di aiuto. Quindi, va fatta notare la particolare nomenclatura del Patrimonio Culturale da parte giapponese.
Per secoli, proprio a causa del concetto di impermanenza tipico del Buddhismo, nell'Arcipelago non si è prestata la necessaria attenzione a una parola così cara alla civiltà italiana: la Tutela. Solo negli ultimi decenni, imparando dagli stranieri, i nipponici hanno finalmente compreso che il passato va conservato. La massima importanza data a un oggetto o edificio è, per l'appunto, quella di “Tesoro Nazionale”. Però, come in tutto, anche qui gli abitanti del Paese del Sol Levante hanno sentito di metterci qualcosa di proprio, di unicamente loro, creando una categoria che la dice lunga su questa cultura: “Tesoro Nazionale Vivente” (人間国宝, “Ningen Kokuhō”). Ovvero, quegli artisti e finanche artigiani che eccellono nelle discipline tradizionali. Non c'è che dire, noi occidentali dovremmo riflettere un bel po' su questo e, magari, capiremmo meglio come si sta al mondo. Benché siano in maggioranza di squisita fattura, una sola delle opere in mostra rientra nella qualifica di massimo pregio, quella di Kiei: Yakushi Nyorai (VIII secolo, legno non dipinto). Ciò spiega quanti capolavori tuttora, malgrado guerre, incendi e terremoti, è possibile ammirare in Giappone!
A proposito delle “maestranze”, chi erano coloro che realizzavano queste raffinate statue? Trattasi di figure dalla importanza capitale, chiamati Busshi (仏師), mitici maestri della scultura che dal X secolo furono quasi esclusivamente monaci, anche se molti di loro non svolgevano funzioni sacerdotali. Nel 701 il Codice Taihō (大宝律令, “Taihō Ritsuryō”) sancì il sistema fondato sul principio del dominio diretto dello Stato sulle terre e sugli uomini. La concezione politica fortemente centralista si materializzò nel progetto di una nuova prestigiosa capitale, Heijōkyō (l’attuale Nara). La Corte vi si trasferì nel 710, seguita dai grandi complessi buddhisti. Dopo 30 anni di interruzione, nel 702 fu inviata nuovamente una ambasceria in Cina e da allora il Giappone continuò a mantenere relazioni amichevoli, seppur sufficientemente distaccate, con la Cina dei Tang (618 – 907).
Il Periodo Nara sarà quello di massima sinizzazione del Paese, tanto che la stessa città di Nara si attesta come la più meravigliosa concentrazione di architettura buddhista cinese di tutto l'Estremo Oriente. In effetti, anche se il Giappone continuava a essere di fatto un Paese tributario della Cina, grazie alla separazione geografica dovuta al mare, poté elaborare una propria ricerca stilistica nell'arte. L’arte Tang segnò un punto di svolta quintessenziale, permettendo lo sviluppo di una raffinatezza culturale prima di allora totalmente sconosciuta.
Nel 907 la fine della Dinastia Tang inaugurò una fase di divisioni e lotte tra i vari regni formatisi sul territorio cinese (Periodo delle Cinque Dinastie e dei Dieci Regni). La confusione che regnava in Cina suscitò nei giapponesi un certo autocompiacimento per lo stato del Buddhismo nella loro Nazione. È proprio in questa epoca così debitrice verso quella del Celeste Impero che si sviluppò un primissimo senso di superiorità da parte nipponica verso il resto dell'Asia. Un paradosso, questo, che è connaturato nella società giapponese e che, sciaguratamente, si ripeterà durante gli anni '30 e '40 del secolo scorso; stavolta il “maestro nemico” sarà l'Occidente.  
Tornando più precisamente all'arte, nella mostra si ricorda Jōchō (XI sec.), un artista che ha fortemente innovato lo stile della statuaria religiosa. La sua unica opera ancora esistente si trova nello splendido Byōdō-in, nella cittadina di Uji, vicino Kyōto. Quello che è anche conosciuto col nome di Padiglione della Fenice ospita un suo capolavoro: la statua di Amida Nyorai (sanscrito Amitābha, 1053). Nel Periodo Kamakura saranno prima Unkei e poi il figlio Tankei a dettare il canone artistico, con specialmente il secondo nel proporre una iconografia di un Buddhismo immanente e che in qualche modo segue le nuove concezioni sociali di stampo militare della casta samuraica ormai saldamente al comando della Nazione. In mostra è presente una opera di Tankei, la quale incarna questo innovativo spirito “guerriero”: Bishamonten (XIII secolo, legno dipinto).
La tipologia tutta nipponica nella rappresentazione del sacro la si può far risalire a dopo il Periodo Nara, quando la statuaria buddhista si “desinizza”. Una indipendenza culturale agognata dagli abitanti dell'Arcipelago, che sempre di più mal digerivano lo strapotere della influenza cinese sulla loro cultura tradizionale. Ecco, che durante Kamakura alla seraficità riscontrabile in tutta la statuaria buddhista d'Oriente, subentra l'ira nei volti delle opere scolpite in Giappone. Il Buddhismo stava inserendosi prepotentemente nella vita dei samurai, dopo aver già conquistato la Corte Imperiale, con lo Shintō a scivolare gradatamente nel mondo rurale. Tale “declassamento” della religione indigena del Paese porterà secoli dopo – durante quella che gli storici del Sol Levante sogliono chiamare la “Valle Oscura” (黒い谷, Kuroi Tani) del militarismo degli anni '30 – a persecuzioni a tratti virulente nei confronti del Buddhismo, rafforzando a tal punto lo Shintoismo da renderlo addirittura una religione nazionale, ribattezzata Kokka Shintō (国家神道) o “Shintoismo di Stato”. Ciò non toglie che fu proprio questa ultima forma religiosa, tutta incentrata sulla vita e sui rituali di tipo sciamanico, a conferire naturalezza alle statue prodotte in Giappone, rendendole decisamente lontane dalla stilizzazione di quelle create nel Celeste Impero. A proposito delle differenze con la Cina, ricordiamo come ben il 70% del territorio nipponico sia ricoperto da foreste. Una circostanza che spiega quella “cultura del legno” che caratterizza tutta l'espressione artistica di questo Paese, quando in Cina la gran parte della statuaria si è sempre avvalsa anche della pietra, un materiale connaturato alla distesa continentale compresa entro i confini del più vasto Paese asiatico. Benché le posture rimangano perlopiù cinesi, molti dei volti delle statue si rivelano essere tipicamente giapponesi, è il caso del Sovrano Celeste (X secolo, legno dipinto). È comunque doveroso fare presente che tale “nazionalizzazione” non la si ritrova nella raffigurazione dei Buddha, ma solo quando il soggetto rappresentato è legato ai vari guardiani e divinità che popolano il Pantheon della corrente Mahāyāna o del “Grande Veicolo”. Ne è un chiaro esempio la statua di Taizan Fukun, (1237, legno dipinto), opera di Kōsei, e proveniente dal maestoso Tōdaiji di Nara. L'espressione facciale di questa sublime opera comunica l'austera maestosità di Taishan (giapp. Taizan), a cui è dedicata la montagna sacra della provincia cinese dello Shandong, dove si riteneva che le anime dei morti fossero chiamate al suo cospetto.
Un'altra fondamentale specificità degli artisti del Sol Levante era quella di proporre Buddha e Bodhisattva con una particolare postura eretta su di un fiore di loto. In esposizione ce ne sono di davvero belli, ma non certo come quella meravigliosa statua di Kannon (prima metà del XIV sec., legno e rame dorati) nell'imponente statuario buddhista del Museo d'Arte Orientale di Torino (MAO), quasi sicuramente il più importante in Occidente come raccolta di statue buddhiste giapponesi. Questo per rammentare al pubblico che andrà a vedere la mostra, che in Italia abbiamo le maggiori collezioni di arte asiatica al di fuori di questo continente e che non è necessario recarsi all'estero per ammirare l'arte orientale al suo meglio. Basta andare per i nostri musei, i quali sono sovente ignorati e hanno sistematicamente i depositi pieni. A tal proposito, all'inizio del percorso espositivo (a cura di Corrado Anselmi) si viene accolti dalla statua di Bonten (Brahmā, testa: Periodo Nara, VIII secolo; corpo: Periodo Kamakura, 1289, lacca secca dipinta e legno dipinto), alta 205 cm. Appena vista, essa ci ha ricordato l'opera forse più bella del sopracitato museo torinese, quel Kongōrikishi (legno di cipresso giapponese dipinto), sempre risalente al Periodo Kamakura, che per dimensioni è persino più grande (230,5 cm) della statua in mostra alle Scuderie del Quirinale. Un autentico capolavoro quello del MAO e che, senza timore di smentite, riteniamo essere la più bella statua giapponese esposta all'estero.

Questa mostra si inserisce nelle celebrazioni del 150° anniversario del primo Trattato di Amicizia e Commercio, firmato il 25 agosto 1866, tra Italia e Giappone, che diede inizio ai rapporti diplomatici tra le due Nazioni. Trattasi di una occasione di notevole rilevanza per comprendere l'altissimo livello raggiunto dagli scultori nipponici già molti secoli fa.
Vi è però anche una “secondaria” considerazione che un intelletto adeguatamente sviluppato potrebbe porsi nell'osservare tutte queste opere. Sarebbe a dire, una riflessione sul Buddhismo quale religione, come detto in apertura, “straniera”, inizialmente importata in Giappone, e poi destinata ad affermarsi nei centri del potere; dunque non solo nella vita della gente comune. Curioso, in fondo non è poi esattamente quello che è successo col Cristianesimo nel mondo pagano? Sia come sia, gli abitanti dell'Arcipelago, sebbene data come acquisita, non hanno mai dimenticato che quella buddhista era una fede proveniente “da fuori”, decidendo perciò di conservare lo Shintoismo. In Europa si è fatto giustappunto il contrario: via le divinità pagane, rimpiazzate da santi e martiri. Giudichiamo tale mancanza di doppia prospettiva il motivo precipuo che ha impedito alla nostra civiltà di sviluppare quel prezioso sincretismo che sta alla base della società giapponese.

RICCARDO ROSATI

Museologo. È bilingue italiano-inglese e da anni studia anche l’Oriente. Ha al suo attivo numerosi saggi e articoli su pubblicazioni italiane e straniere e ha preso parte a conferenze in Italia e all’estero. Con Starrylink ha pubblicato: La trasposizione cinematografica di Heart of Darkness (2004), Nel quartiere (2004) e La visione nel Museo (2005). Sul Giappone ha scritto Perdendo il Giappone (Armando Editore, 2005) e, con Arianna Di Pietro, Da Maison Ikkoku a NANA. Mutamenti culturali e dinamiche sociali in Giappone tra gli anni Ottanta e il 2000 (Società Editrice La Torre, 2011). Ha inoltre co-curato il testo Nihon Eiga. Storia del Cinema Giapponese dal 1970 al 2010 (csf edizioni, 2010). Negli anni, ha comunque continuato a fare ricerca anche nell’ambito della anglistica e della francesistica.

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