Qualche pensiero sull'Haiku
Colgo questa occasione che mi viene offerta per dire alcune cose sulla poesia giapponese, e in particolare sull'haiku
per segnalare che nelle edizioni "La Vita Felice", è da qualche mese in libreria un bel cofanetto dal titolo "Capolavori della poesia giapponese". Contiene quattro piccoli volumi pubblicati a suo tempo, singolarmente, sempre dallo stesso editore.
Sono le poesie di Daigu Ryokan, di Kobayashi Issa, di Saigyo e di Matsuo Basho. Le prime tre raccolte curate da Luigi Soletta, missionario del P.I.M.E. in Giappone per quarant'anni, buon conoscitore della lingua e della cultura giapponese. La quarta ad opera della signora Muramatsu Mariko. Si tratta di lavori davvero preziosi, indispensabili per farsi un'dea del mondo poetico giapponese. Lavori dei quali dobbiamo ringraziare sia i curatori sia questa piccola ma interessante casa editrice che li ha pubblicati. Mi sento proprio di raccomandarli a tutti coloro che sentono la voglia di approfondire un po questi argomenti.
Torno però all'haiku, a questa particolare forma poetica di origine giapponese, argomento sul quale ho promesso di spendere qualche parola. Da tempo l'haiku è abbastanza conosciuto e diffuso in Occidente e lo è ormai molto anche nel nostro paese. Trenta o quaranta anni fa non era così. Non voglio dilungarmi sulla storia dell'haiku in occidente ma mi sembra doveroso ricordare che tra i primi a parlarne, negli anni cinquanta, furono gli autori americani della Beat Generation, in particolare Kerouac, Gary Snider e Ginsberg. Tra le opere di allora, oltre alle poesie, scritte direttamente nella forma dell'haiku o comunque con una forte ispirazione a questa forma.
Dicevo che l'haiku, come genere poetico, negli ultimi anni ha trovato molti estimatori anche nel nostro paese. Ne sono testimoni i numerosi libri pubblicati sull'argomento e ne è testimone anche il fatto che in molti hanno cominciato a cimentarsi nella composizione dei classici tre brevi versi, la forma ormai canonica nella quale, fatte salve rare eccezioni, le diciassette sillabe della tradizione giapponese (5 - 7 - 5) sono da sempre tradotte nelle diverse lingue occidentali. E' anche il caso di ricordare il romanzo "I vagabondi del Dharma" di Jack Kerouac, un romanzo che, oltre a raccontare l'incontro dell'autore con Gary Snider, cultore di poesia cinese e giapponese, narra anche del suo progressivo innamoramento per lo zen e per questo modo di fare poesia. Varrà la pena, a questo punto, di fare almeno un esempio, riportando un haiku di un classico autore giapponese (Matsuo Basho) nella versione giapponese in diciassette sillabe e nella traduzione in italiano nei tre brevi versi:
Mikazuki ni chi wa oboronari, sobabatake
Sotto una falce di luna
pallida è la terra
e bianchi i fiori di grano saraceno.
Per la sua brevità e per la sua apparente semplicità l'haiku sembra proprio prestarsi particolarmente allo scrivere in versi. Poche righe per descrivere una bella luna o una stagione che cambia, giocando sulla ricerca delle parole e sulla loro collocazione all'interno dello schema dei tre brevi versi. Forse l'haiku si porta ancora dietro una specie di "peccato originale" che in qualche modo ancor oggi lo condiziona. Affonda infatti le sue radici in un certo manierismo poetico giapponese che, intorno al XVII secolo, sviluppò alcune forme di componimenti a catena scritti a più mani.
Come accade spesso per queste cose, all'interno delle corti nobiliari giapponesi dell'epoca, a turno, come in un gioco, ogni partecipante a questa sorta di componimento poetico collettivo proponeva i suoi versi secondo uno schema sillabico fisso. Prendeva spunto dai versi composti da chi lo aveva preceduto e ne veniva fuori una sorta di "catena poetica" che poteva durare all'infinito.
Altra regola fissa del gioco, oltre al numero delle sillabe, era nel contenuto della composizione, sempre rigorosamente ispirato alla natura nelle varie stagioni dell'anno. Da un certo momento in avanti si fece strada l'idea che i brevi componimenti in diciassette sillabe che erano parte di queste lunghe composizioni chiamate "Rengaî", potessero vivere di vita propria, diventando essi stessi una poesia a sè stante. Era nato l'haiku.
E' in questo mondo poetico che, verso la seconda metà del XVII secolo, si affaccia sulla scena Matsuo Munefusa. In seguito si farà chiamare con il nome d'arte Basho per via di una pianta di banano (basho in lingua giapponese) che cresceva nel giardino della sua casa di Fukagawa ed alla quale era molto affezionato. Matsuo Basho, ritenuto ormai da tutti uno dei più grandi autori giapponesi, rappresenterà un punto di svolta nella poesia giapponese dell'epoca. Oltre ad essere considerato a tutti gli effetti il padre dell'haiku è anche, e giustamente, ritenuto colui che ha saputo rendergli spessore e dignità. Nella sua ricerca stilistica e letteraria cercò di liberare la poesia del suo tempo dalle stucchevoli preziosità che la appesantivano, per renderla ad una bellezza più sobria e pacata e per riportarla alla riscoperta della bellezza della quotidianità, come lui stesso amava dire.
Basho fu seguace dello Zen che lo ispirò nelle sue opere oltre che nello stile della sua vita, volutamente condotta in povertà e semplicità, alla ricerca dell'essenza delle cose. Di certo l'haiku poteva essere solo figlio del Giappone e della sua cultura. In uno dei suoi libri, Alan Watts, un filosofo americano legato alla Beat Generation, definì l'haiku "...un sasso lanciato nello stagno della mente di chi ascolta", volendone significare questa sua caratteristica di opera aperta che crea infinite vibrazioni nell'animo di chi lo accoglie.
Infatti, come tante altre espressioni artistiche della cultura giapponese, l'haiku tende a rappresentare una realtà ampia in pochi segni piuttosto che chiuderla, tentando di esaurirla in discorsi sempre più definiti. Allo stesso modo del sasso tirato nell'acqua che genera onde in cerchi sempre più ampi.
Antico stagno
Un tonfo d'una rana
Rumore d'acqua
Naturalmente le corde del cuore possono vibrare con ampiezze diverse e a profondità diverse nella vita di ognuno, dipende da tante cose. Infatti, tanto per fare un altro esempio, è possibile passare sopra il famoso balzo della rana di Basho e trovare il tutto molto monotono: oppure è possibile vedere, su uno sfondo di silenzio immobile, il manifestarsi della vita. E' cogliere, in un balzo, il presente e l'eterno, il limite e l'infinito. O altro ancora, a ognuno secondo le proprie sensibilità.
Si possono trovare molte cose in un haiku. Ma è importante, e anche molto piacevole, lasciar andare ogni ansia interpretativa e sapersi semplicemente gustare líimmagine che ci viene suggerita. Basho stesso diceva che la sua poesia ha lo stesso valore di "una stufa d'estate o di un ventaglio in inverno", per dire che non c'è proprio nessuna finalità, nessun significato nascosto e nessuna verità ulteriore da trovare a tutti i costi. Questa idea di un valore aggiunto, di qualcosa che sta sotto, è spesso il vizio di una mente complicata che non riesce a cogliere con semplicità la bellezza delle cose.
Anche nella forma dell'haiku non c'è nessuna complicazione. In un suo saggio, il semiologo Roland Barthes scrive che la brevità dell'haiku non è formale: "non è un pensiero ricco ridotto ad una forma breve, ma un evento breve che trova tutto ad un tratto la sua forma esatta". Quasi in risposta ad Alan Watts, e nel solco della migliore tradizione zen, afferma inoltre che "la pietra della parola è stata gettata inutilmente, non ci sono onde nè colate di senso". Fantastico. Riporta alla mente la frase di un famoso maestro zen giapponese: "Ogni cosa canta la verità senza aggiungere nulla" (E. Doghen - Bendowa - Ed. Marietti).
L'haiku nasce da un cuore profondo e non ostruito, un cuore che sa cogliere questa verità nella realtà semplice delle cose. E si presta per cantarla. Forse per questo lo sentiamo così vicino allo zen. Secondo la tradizione infatti, il Buddha, sul Picco dell'Avvoltoio, in assoluto silenzio mostrò semplicemente un fiore ai discepoli che si erano radunati per ascoltare le sue parole. Nessuno capì, tranne Makashapa che, per tutta risposta sorrise. A lui il Buddha affidò la continuità del suo insegnamento. Questa storia, semplice e poetica, racconta l'origine dello Zen.... forse racconta anche delle radici dell'haiku.